
Mostra d’Arte alle Stanze della Memoria di Siena: “Montemaggio. L’Eccidio, il processo”

“Montemaggio, l’Eccidio, il processo”, esposizione d’arte realizzata dalle studentesse e dagli studenti della classe VB Arti Figurative Bidimensionali del Liceo Artistico “Duccio di Buoninsegna” di Siena.
La mostra è frutto di un laboratorio didattico e creativo che ha coinvolto i giovani in un percorso di ricerca, riflessione e rappresentazione visiva. Le opere esposte interpretano in chiave contemporanea uno degli episodi più tragici della storia locale: l’Eccidio di Montemaggio, avvenuto il 28 marzo 1944, e il processo che ne seguì. Un contributo significativo alla costruzione di una memoria viva e condivisa.
































“E QUESTO E’ IL FIORE DEL PARTIGIANO…”
Si lascia corteggiare dal sole il papavero rosso che sboccia, libero e luminoso, ovunque.
Consola il nostro sguardo e induce ad apprezzare la prodigiosa vitalità della natura, allude
e illude a un senso di pace. L’immagine, a volte, conta più delle parole.
Quasi tutte le opere in esposizione hanno la caratteristica di avere da qualche parte uno o
diciannove papaveri, o comunque un richiamo alla loro intensa e accesa valenza
cromatica che in alcune zone si addensa come una ferita. Inutile cercare accostamenti
con la dimensione solare evocata dall’unità gioiosa di uomo e natura decantata dai
coquelicots di Argenteuil, come stava a cuore all’Impressionismo francese, qui, il nostro
fiore simbolo, si traduce in segno di libertà e solidarietà dell’uomo, di ribellione alla
violenza e a qualsiasi forma di autoritarismo.
Memoria di eventi passati, di luoghi, circostanze e immagini. Memoria di Resistenza.
Sanno sollecitare la nostra attenzione i lavori elaborati dagli alunni della classe 5B, a.s.
2024/2025.
Ci consegnano multiformi punti di vista, ognuno secondo la propria specifica identità,
l’esclusiva modalità del pensare e di fare ricerca artistica, su un capitolo vivo, tragico, di
storia recente, che hanno assunto in sé uscendo dalla quotidianità della classe, per poi
restituirlo in immagini emozionali o impulsive sulla superficie di una tela o di un foglio di
carta. E’ un modo
di giudicare e comprendere. Di comunicare.
Ogni lavoro è diverso, ma tutti rivendicano un valore etico, un interesse per il sociale, per
gli uomini e la storia.
Il linguaggio visivo mette a fuoco una figuratività naturalistica più tradizionale, con elementi
prospettici ben accennati, nel caso dei paesaggi che evocano lo scenario di “ Casa
Giubileo”, (non lasciamoci ingannare dal nome) per mezzo del colore ma anche del non
colore. Affiora una calma, solo apparente, nella prima visione, mentre nella seconda il
finito della forma risulta sfigurato da una commossa tensione interiore, come bene
testimoniano gli alberi scheletrici e tormentati nel filare in primo piano, in grado di
trasformarsi in presenze ambigue e inquietanti.
Altri lavori sfociano verso una dimensione più concettuale, insofferente alle regole. Due
porte chiuse con la serratura sono composte da una traccia calligrafica sottile e raffinata,
quasi minimalista, in uno spazio virtuale luminescente. La loro presenza si carica di un
doppio significato simbolico che connota l’alternarsi del bene e del male, mentre la
silhouette appena più ritmica sullo sfondo indica la porta giusta da aprire per proseguire
idealmente verso la meta della democrazia.
Ha dimensioni monumentali la figura femminile che occupa la tela con l’ampliarsi della
veste.
Sembra quasi una laica e “popolare” Madonna della Misericordia, solenne protagonista di
tante pale d’altare del Medioevo e del Rinascimento. Le mani nervose sono aggrappate
alla coperta sgualcita, nella quale una trama invisibile ricuce scene agganciate ad un
presente ormai sconvolto da eventi luttuosi e lembi di fantasmi del passato rievocati dalle
pennellate nei toni più concilianti dell’azzurro.
Alcuni alunni si sono confrontati con la fotografia e non solo con intenti documentari. Altri
hanno guardato e riguardato, faccia dopo faccia, le fotografie delle giovani vittime e
rielaborato in chiave un po’ naif e primitiva (cioè con candore) la loro umanità, alcuni
usando toni acromatici, altri lasciando libertà ai colori e alle linee per definire nitidamente
contorni e volumi su uno sfondo pulito e uniformemente piatto o solcato da steli
avviticchiati. Si noti un papavero di dimensione sproporzionata rispetto al soggetto dipinto.
Prende consistenza autonoma e materiale provocando un po’ di fastidio ma anche di
meraviglia. E’ una presenza plastica da manipolare, che aggiunge una componente uditiva
nel gesto di rimuovere e riposizionare il fiore sulla calamita della tela. In effetti una scelta
multiespressiva che sorprende.
Dalla dimensione del quadro escono anche i papaveri in carta giapponese, illuminano un
funereo contesto con la vivacità armoniosa del colore rosso. In bilico fra illusione e realtà,
fra bidimensionalità e tridimensionalità, il volto sfigurato e aggiustato con una toppa
dorata piena di fiori per meglio evidenziare la cicatrice, questa volta l’ispirazione ha subito
la suggestione di un’antica tradizione orientale.
Disseminati ovunque i papaveri, invadono delicatamente la terra, lieve come un velo,
posata su di un corpo senza vita, così leggera da annullare la rigidità della morte e
trasformare la sofferenza in quiete. E’ portata in primo piano e appena tagliata sotto il collo
la testa di un giovane che guarda enigmaticamente il cielo e nel quale sembra trovare una
condizione di calma serenità. Qui l’emozione è tenue e soffusa di malinconia.
E’ possibile avvertire come gli studenti ricompongono a modo loro il contrasto fra umano e
disumano e la tendenza espressionistica alla deformazione bene si adatta a rappresentare
uomini deturpati dall’odio e dalla violenza. Una stimolante, fantasiosa, assimilazione di
alcuni procedimenti espressivi studiati dalla pittura italiana del dopoguerra.
Sono resi sgradevoli i carnefici, come personaggi macabri dai ghigni minacciosi e dallo
sguardo in cui lampeggia qualcosa di demoniaco: evocano paura. Nel foglio strappato e
ricucito con l’ago e il filo, una forza aggressiva caratterizza gli aguzzini, persino la carta
stropicciata e sporca concorre a rendere la brutalità del regime. Assume un tono livido
anche il soggetto dipinto con i colori freddi del verde e incorniciato di materia cromatica
rosso sangue, tecnicamente raggrumato dalla fisicità della carta per raggiungere la
massima intensità espressiva.
Si placa la carica espressionistica nei confronti dei complici, lo rivelano il militare senza
notazioni cromatiche, serrato in un fondale bianco abbagliante e il cui volto è uno specchio
vuoto o il soldato che imbraccia il fucile da cui spunta un papavero, il denominatore
comune, dal punto di vista stilistico, di questi lavori.
Suscitano l’orrore della guerra le bare aperte con i corpi avvolti in un sudario e in attesa di
sepoltura, in cui sembra di riconoscere, forse esagerando, un legame con l’iconografia
goticheggiante.
Non può sfuggire un corpo scultoreo, plasticamente strutturato come una divinità dei tempi
antichi, inghiottito dal buio delle tenebre. Non è un bell’eroe, è un orco che prende
all’improvviso coscienza delle azioni a cui lui stesso ha partecipato. Ma è ovvio che
l’analisi formale deve cedere il passo al sintetico linguaggio dei simboli, al ruolo prioritario
che è stato assegnato alla luce, fonte di verità e conoscenza, per non perdere il senso
della memoria.
[testo critico della prof.ssa Marta Batazzi]